di Sergio Cofferati (Presidente Fondazione Di Vittorio)
e di Ermete Realacci (Presidente di Legambiente)
(fonte: la Repubblica, 3/11/2002)
Fra pochi giorni comincia a Firenze il Forum Sociale Europeo, migliaia di giovani si ritroveranno in una delle città simbolo del vecchio continente uniti
dall'aspirazione ad un mondo diverso, dall'indignazione per le immense ingiustizie che segnano oggi i rapporti tra gli uomini e tra i popoli, dal no "alla guerra preventiva" contro l'Iraq. Uniti anche, così è da sperare e da credere, dal rispetto massimo e dalla più larga apertura verso le persone e le cose della città che le ospita.
Fino ad oggi la sostanza - in termini di dibattito, di confronto di idee - del Forum è
rimasta totalmente sommersa sotto il tentativo di presentare questo appuntamento come una specie di arrembaggio di pirati. Invece Firenze può dare una spinta forte agli sforzi per fare dell'Europa il promotore e l'artefice di un progetto diverso, meno miope e più solidale, di globalizzazione.
La parola Europa - lo ricordava il presidente ceco Vaclav Havel in un discorso tenuto di recente in Italia e pubblicato su queste pagine - significa Occidente: per i nostri progenitori asiatici in migrazione verso Ovest, l'Europa era infatti l'orizzonte dove tramontava il sole, l'estremo lembo occidentale del mondo conosciuto e anche di quello immaginato.
Oggi l'occidente è diventato una categoria molto più politica, economica, culturale, che non geografica. "Occidente sono i ricchi del mondo, è quel 20%
dell'unanità che consuma il 70% dell'energia e dell'acqua e produce oltre il 50% delle emissioni che stanno cambiando il clima.
Secondo alcuni, questo occidente/Nord ha in comune identici interessi e valori e dovrebbe sempre condividere anche obiettivi e politiche. La pensano così quanti considerano il mondo attuale il migliore dei mondi
possibili, il mercato una religione, la globalizzazione senza troppe regole un imperativo: per costoro il "mondo dei ricchi" non ammette dissociazioni, e soprattutto che a nessuno venga in mente di disturbare il manovratore, che oggi senza discussioni è impersonato dagli Stati
Uniti. Washinghton decide di chiamarsi fuori dal protocollo di Kyoto per la riduzione delle emissioni che alterano l clima, dal Tribunale penale internazionale, dal Trattato antitortura, o si prepara ad attaccare l'Iraq. L'Europa deve accodarsi, ogni presa di distanza viene
bollata come un tradimento o come una prova di vigliaccheria. Questa stessa idea dell'Occidente come una monade appartiene, per paradosso, anche a chi sul versante opposto attribuisce ai Paesi ricchi tutti i mali del mondo: nessuna differenza tra Stati Uniti ed Europa, sotto le sfumature c'è l'identica volontà d'utilizzare la globalizzazione come strumento di dominio imperiale, neocoloniale sul mondo.
Fortunatamente, ci sono altri che non rinunciano a sottolineare le diversità tra USA ed Europa. Che, in particolare,
guardano al Vecchio Continente come al possibile battistrada di una visone dei processi globali distante da quella dell'odierno governo americano e ancorata ai valori dell'equità e della
coesione sociale, della difesa dell'ambiente, di un approccio multilaterale ai grandi problemi planetari. I segni di questa "differenza" europea sono già visibili: segni economici, ambientali, culturali, sociali, anche segni politici.
I consumi e i modelli produttivi, intanto. Noi Europei consumiamo molta meno acqua e molta meno energia
degli americani, produciamo la metà dei rifiuti, quasi non coltiviamo Ogm mentre gli Stati Uniti assorbono il 70% della produzione mondiale "biotech". Siamo un pò meno ricchi (33mila dollari il reddito pro-capite negli USA, 24mila nell'Europa dei 15) ma
destiniamo ai Paesi poveri come aiuti allo sviluppo una quota tripla del Pil. Per finire la politica.
Seppure fra incertezze e contraddizioni, l'Europa in più di un'occasione ha mostrato concretamente la propria
"differenza". Sul Protocollo di Kyoto, innanzitutto, ratificato dai 15 malgrado il dietrofront americano (gli Stati Uniti erano tra i Paesi firmatari). E proprio in queste settimane sul problema della guerra al'Iraq, rifiutando con Scroeder, con Chirac, con lo stesso Prodi l'idea che l'impegno per sconfiggere il terrorismo globale possa tradursi nel ricorso alla guerra, o ancor peggio come teorizzato da Bush alla
"guerra preventiva" e in una definitiva legittimazione del ruolo degli Usa come "gendarmi del mondo".
Non si tratta di replicare i vecchi miti antiamericani ormai del tutto consunti. Semplicemente c'è da prendere atto che gli Stati Uniti rispondono a interessi, anche a valori, che non sempre coincidono con quelli dell'Europa: ostentano, non da ora, un sostanziale disinteresse per la dimensione sociale,
ambientale, civile dello sviluppo e dei processi di globalizzazione, e specie sotto l'amministrazione Bush sono andati esplicitando una visione dei rapporti internazionali nella quale l'obiettivo in sé sacrosanto della lotta al terrorismo è diventato il pretesto per scelte segnate da tratti inaccettabili di
arroganza e unilateralità.
Ma cosa manca all'Europa per dare continuità ed incisività alle sue ancora timide, "prove tecniche" d'autonomia? Manca molto, moltissimo. Manca
innanzitutto unità d'intenti: l'Unione Europea è un'acquisizione straordinariamente preziosa , tanto più dopo la scelta
dell'allargamento ai Paesi dell'Est: ma l'Europa unita non può essere soltanto quella della moneta, dei mercati e dell'euroburocrazia, deve fondarsi su istituzioni dotate di una forte legittimità democratica, su una Costituzione sancita dal voto dei cittadini europei e su una "carta dei diritti". Accanto a un'unità politica autentica, l'altro pilastro su cui costruire un'Europa più forte e più utile ad affrontare i problemi globali, è la valorizzazione di quel fitto tessuto di autonomie, di identità territoriali ad essa così connaturato. L'anima più preziosa dell'Europa è in questa miscela di unità e di diversità, in una nozione dell'identità che si basa non sull'appartenenza etnica ma sulla comunanza di bisogni, di
interessi e pure di valori. Solo se saprà coltivare tale sua "differenza", l'Europa potrà
contrastare con efficacia i mali che ogi l'assillano - i rischi di smantellamento del Welfare e gli attacchi ai diritti sociali; la
disoccupazione; le difficoltà ormai croniche dei comparti industriali più legati all'economia materiale; la persistente arretratezza di grandi aree come il nostro sud; l'inquinamento che assedia le città - e aiutare a risolvere i drammi che pesano
sull'umanità, compreso il rischio che la miseria e la disperazione di miliardi di uomini e donne diano alimento - come un velenoso brodo di coltura - a terrorismi, fondamentalismi, logiche di guerra.
Insomma, parafrasando ancora Vaclav Havel è giunta l'ora che l'Europa smetta di cullarsi nell'idea, così ricorrente nella sua lunga storia, che deve esportare se stessa nel mondo intero, e si misuri con un'ambizione forse più modesta ma sicuramente più utile: cominciare a cambiare il mondo partendo da se stessa. Perché il mondo ha maledettamente bisogno di un'Europa che anziché rincorrere l'attuale modello americano pratichi una diversa, autonoma via verso il futuro.
PIAZZA BELLA ITALIA di Francesco Pardi (da l'Unità del 17 Settembre 2002)
Roma, Piazza San Giovanni: grande festa della libera
cittadinanza. La sua grandezza da sola già dice qualcosa a tutti, anche a
coloro che non volevano capire. In pochi mesi di iniziative crescenti
un'opinione pubblica di massa, che negli anni precedenti non aveva avuto
occasione di conoscersi e di farsi conoscere, si è rivelata a sé stessa e
si è imposta anche a chi dubitava perfino della sua esistenza. Ora è in
piedi e parla chiaro. Dice che in Italia c'è un intollerabile accumulo di
potere nelle mani di una persona sola. Un monopolista televisivo ha in mano
il potere politico, un imputato per reati gravi e disonorevoli si fa
ridisegnare le leggi in modo da farli scomparire, un leader che si
autoproclama liberale, e tale è considerato da una folla di apologeti a
pagamento, è capo del partito meno democratico d'Europa: nato da
un'azienda, privo di organi elettivi, strutturato secondo una gerarchia
nominata dall'alto, prono al volere del padrone, con i dirigenti che salgono
o scendono le scale del potere interno a un suo battito di ciglia. Questa
opinione pubblica dice, a tutti ma soprattutto ai suoi partiti, che questa
non è una democrazia normale. Berlusconi non è un avversario politico
normale. In nessun altro paese democratico l'opposizione ha di fronte un
caso simile. Molto prima che un avversario politico Berlusconi è
un'anomalia istituzionale, la cui sola presenza sottopone a una torsione
pericolosa tutto l'equilibrio della democrazia e dei poteri costituzionali.
Se il detentore del potere politico ha il controllo totalitario dei mezzi
d'informazione televisivi, con quali mezzi d'informazione l'opposizione può
vedere garantito il suo diritto all'alternanza di governo? Se il titolare
del potere esecutivo si fa confezionare dal potere legislativo leggi che lo
sgravavo dalle sue numerose imputazioni, che fine fa il principio
dell'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge? Se il potere
giudiziario viene dalle stesse leggi privato della sua indipendenza e
ridotto a un'appendice inerte del quadro istituzionale, dove risiederà la
garanzia giuridica contro l'arbitrio? Domande simili i partiti avrebbero
potuto e dovuto portarsele da soli, senza alcun bisogno del suggerimento
popolare. Invece hanno minimizzato, per un certo tempo addirittura sostenuto
che il conflitto d'interessi e la questione istituzionale connessa non
interessavano a nessuno. Ora possono scoprire che interessano una vastissima
platea di cittadini e se sono saggi capiranno che i cento movimenti sono
solo la porzione più attiva e visibile di una più ampia opinione pubblica,
critica e consapevole, che una volta scoperta la sua stessa consistenza e le
sue ricche potenzialità, non è affatto disposta a lasciare che il
futuro del paese sia determinato da pubblicità, illegalità,
impunità, incultura e volgarità. Questa nuova opinione pubblica è
destinata a durare e a crescere. Scommettiamoci pure. E vuole contare di
più. Ha imparato la diffidenza verso i partiti e non concede loro una
fiducia senza riserve. Non si accontenta di essere blandita da
riconoscimenti che vengono troppo tardi per non apparire un pò interessati.
Non è la sinistra radicale e giacobina contro la sinistra ragionevole e
riformista, come stucchevoli ritornelli continuano a ripetere. Intanto non
è solo una sinistra: è un movimento in parte trasversale e interclassista
(...). Non è una sinistra contro le istituzioni, anzi è radicale
soprattutto nel difenderne la dignità. La parola d'ordine estremista di
piazza S. Giovanni era "La Costituzione è uguale per tutti".
D'altro canto, l'altra sinistra non sembra eccellere nelle virtù che
predica. Che cosa c'era di ragionevole nel concedere a Berlusconi la
discussione (sulla giustizia!) in Bicamerale? E che cosa c'era di riformista
nella rinuncia a formulare, durante ben cinque anni di governo, una vera
legge sul conflitto d'interessi? Il dialogo tra movimenti, partiti e
associazioni è fondamentale per ricostruire una coalizione capace di
vincere le prossime elezioni, a maggior ragione se si considera la nostra
generale carenza di mezzi di comunicazione. Ma un vero dialogo si può
fondare solo sulla fiducia reciproca e perciò sulla rinuncia alla
sovranità assoluta dei partiti. Sono possibili molte proposte in positivo,
sia sulla costituente di una coalizione rinnovata, sia sui programmi
politici e di governo(...). L'opposizione parlamentare deve dare il meglio
di sé per ritardare, inceppare, bloccare la demolizione della giustizia. E
soprattutto deve impegnarsi a non trattare sulle riforme istituzionali.
L'unica che la maggioranza vuole davvero è la repubblica presidenziale,
cioè la somma dei poteri del capo dello stato e di capo del governo nelle
mani di una sola persona. Se l'opposizione parlamentare accettasse la
possibilità che un monopolista televisivo diventasse presidente di una
repubblica presidenziale si renderebbe complice al tempo stesso di una
vergogna nazionale insostenibile e di un danno irreparabile alla democrazia
italiana.
MAI PIU' RASSEGNATI
Nanni Moretti in campo con una intervista a "Il Venerdì"
su WebOltre
Dall'Impegno all'impegno
di Nanni Moretti
su WebOltre
3 Settembre 1982 Strage Dalla Chiesa - Da "Avvenimenti" :
Vivere con la mafia
...che ti guarda di Nando dalla Chiesa
Un soldato. Un carabiniere. Un servitore dello stato. Un
vecchio democratico Non in alternativa, ma tutto insieme. Perché, con
certezza, si considerava un uomo delle istituzioni democratiche. Ma a
seconda delle circostanze, sapeva che il suo dovere scaturiva nel modo
più chiaro e inappellabile dal riferirsi all'una o all'altra di quelle
identità. Spesso per disegnarsi meglio, aggiungeva una parola (l'onore,
gli alamari, il dovere, la Costituzione), quasi a rafforzare, precisare
il concetto. Oppure, se voleva entrare nella fantasia
dell'interlocutore, evocava un'immagine: la carica di Pastrengo, Salvo
D'Acquisto, la fiducia del ministro, lo sguardo pulito dei giovani.
Quando aveva tempo, gli piaceva anche andare a ritroso nella vita
(l'infanzia in caserma, Corleone nel dopoguerra, la lotta contro il
terrorismo o contro la nuova mafia) perché si capissero le radici
biografiche della propria personalità. Di Colonnello. Di generale. Di
prefetto. Sempre dalla parte dello stato democratico.
Perché una cosa è sicura: la sua fu, dalla Resistenza nelle Marche fino alla morte contro
la mafia, una vita spesa per la libertà del popolo italiano.E' questa
vita, tutta intera, che torna davanti a noi venti anni dopo il suo
assassinio. E' proprio vero. Gli anniversari sono una cosa specialissima;
mai scontati e prevedibili come si teme e si tramanda; oleografici solo
nelle parole dei sena mente e senza cuore. Capaci invece di prenderti a
tradimento. Un anno possono ravvivare dolore, resuscitare rabbia. Un
altro anno giungono in punt di piedi a celebrare compostamente,
silenziosamente, la memoria che tutti unisce. Un altro anno ancora
scatenano la memoria che divide e contrappone. Oppure: oggi esaltiamo un
capitolo della lezione di vita degli eroi; domani interrogano
impetuosamente altri e diversi capitoli di quella lezione. In fondo, è l
forza della storia. Che passa e fa cadere sui suoi protagonisti le
domande e le passioni dell'attualità. Con impertinenza. con finta
leggerezza. Beffandosi di chi, per affetto verso quei protagonisti, non
desidera altro che serenità; che tenersi fuori dalle polemiche; che
assapora in pace un gesto collettivo di rispetto.
(Il resto dell'articolo su "Avvenimenti" n°33 - 2002)