Pierbusa Note

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Sabato, 31 Marzo 2018

#Premessa a Anonimo Veneziano di Giuseppe Berto
(scritta dall'autore)

Questa mattina mi sono accorto che la Neri Pozza ha ripubblicato "Anonimo veneziano" di Giuseppe Berto. In questa riedizione si sono però "dimenticati" di ripubblicare l'originaria "Premessa" dell'autore. Peccato perché era davvero bella. Come si potrà constatare leggendola nel seguito.

Hemingway diceva che uno scrittore, se è abbastanza buono, deve misurarsi ogni giorno con l'eternità, o con l'assenza di eternità. Io non posso giurare d'essere uno scrittore abbastanza buono, però la fatica di misurarmi con l'eternità o, peggio, con l'assenza di eternità, la conosco anch'io. Con questo voglio dire non che presumo di produrre ad ogni passo opere immortali, ma semplicemente che ho l'abitudine di lavorare con serietà e purezza di propositi, anche mirando al successo, com'è lecito, purché la ricerca del successo non comporti alienazione. Quindi, se mi accusano di furberìa, di venire a compromesso con l'industria culturale, io mi addoloro e mi offendo.

Quest'accusa mi fu abbondantemente riversata addosso nel 1971, quando Anonimo Veneziano fu pubblicato per la prima volta, in forma di dialogo diretto con qualche didascalia. Usciva al seguito di un film di grande successo - in effetti era il dialogo di quel film - e il sospetto che si trattasse di un'operazione commerciale fioriva spontaneo.

A peggiorare le cose, proprio in quel tempo, e in un clima di grande euforia consumistica, uscì in Italia Love Story, un romanzo che in America e altrove aveva già avuto trionfali accoglienze.

Fatalmente, Anonimo Veneziano e Love Story mostravano qualche punto di somiglianza, così molti furono contenti di credere, e di far credere, che io avevo scritto Anonimo Veneziano non solo tenendo conto delle indagini di mercato, ma anche andando sulle pedate d'un collega tanto prediletto dalla fortuna.

Ora, l'accusa di imitazione è ridicola: il dialogo del film Anonimo Veneziano io lo scrissi, e lo consegnai a Enrico Maria Salerno che me l'aveva ordinato, nel 1967, alcuni anni prima che uscisse Love Story.

Parimenti ridicola è, ai miei occhi, l'accusa di alienazione. La pubblicazione di un libro è, quasi sempre, un'operazione commerciale:

un editore stampa un volume nella speranza di venderlo, e può fondare la sua speranza anche su fattori estranei alla letteratura. Per esempio, il successo di alcuni film ricavati dal Decamerone può avere invogliato qualche editore a pubblicare, magari in fretta, le novelle del Boccaccio, tuttavia sarebbe scorretto se, a causa di ciò, si sospettasse il Boccaccio di collusione con l'industria culturale.

Collusione può verificarsi solo nella fase in cui un'opera viene creata, non quando viene stampata, e voler capire l'animo d'uno scrittore mentre immagina e scrive un'opera è presunzione perversa, come pretendere di penetrare con superbia e ignoranza dentro un mistero che di solito è tale anche per colui che sta immaginando e scrivendo. Per conto mio era ingiusto che qualcuno si mettesse a giudicare contaminato da malafede e da plagio un lavoro che in fin dei conti trattava della morte e del coraggio di morire, un tema che, più o meno allegramente, sta in tutta la mia vita e in quasi tutti i libri che ho scritto.

La pubblicazione di Anonimo Veneziano mi procurò, dunque, prevalentemente dispiaceri. Mi ci sarei anche rassegnato, magari sognando di rifarmi dopo morto - bene o male l'avevo pur scritto misurandomi con l'eternità - se non mi fosse capitata tra le mani l'edizione inglese del mio lavoro, nella traduzione fatta da certa Valerie Southorn. Manovrando ingegnosamente con le didascalie, costei aveva trasformato il dramma in un racconto, ottenendo un risultato, per me, illuminante: se l'aveva fatto lei di testa sua, perché non potevo farlo io di testa mia?

Così siamo arrivati a questa seconda stesura di Anonimo Veneziano, con la quale spero di cancellare almeno in parte le brutte impressioni suscitate dalla prima. Il dialogo è rimasto press'a poco com'era, ma le scarne didascalie sono diventate brani narrativi, scritti con fatica e puntiglio e ambizione, per raggiungere un approfondimento psicologico dei personaggi che il solo dialogo non consentiva, e per stabilire tra il protagonista che sta morendo e la sua città che sta morendo insieme a lui, un più pietoso legame.

Posso dire che in vita mia non avevo mai lavorato tanto per scrivere tanto poco, né mi ero mai così abbandonato al tormentoso piacere di permettere ai pensieri di cercarsi a lungo le parole più appropriate, e nel cercarsele magari mutano e differentemente si presentano sicché ne vogliono altre, e così via. È un'operazione che, d'abitudine, l'industria culturale non chiede, e forse nemmeno gradisce.

Giuseppe Berto

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