Pierbusa Note

PRIMA | HOME PAGE | DOPO

Mercoledì, 28 Marzo 2018

#La colpa di Anna
(Dall'introduzione di Igor Sibaldi all'edizione Mondadori di Anna Karenina)

Anna dunque è di questa stirpe, e non ha scampo: le sue sofferenze e il suo suicidio sono il castigo divino per l’adulterio che ha consumato con il giovane Vrónskij, abbandonando non soltanto il marito ma anche il figlio, e dando lungo scandalo nell’alta società pietroburghese – di cui, prima della colpa, Anna era stata un fiore ammiratissimo. L’alta società, dal canto suo, ha punito Anna con il disprezzo e l’emarginazione, ma illegittimamente: poiché non tocca agli uomini punire, ma a Dio soltanto, a quel terribile Dio veterotestamentario che fa vendetta e retribuisce, e non conosce il perdono.
Questo modo di interpretare la problematica morale di Anna Karénina è sempre piaciuto molto alla critica e, per quel che ne so, anche alla gran maggioranza dei lettori. O, più precisamente, vi è sempre stata una sorta di intima soddisfazione nel vedere in Tolstòj un moralista cupo e crudele, che resiste per centinaia di pagine alla tentazione di innamorarsi di quell’Anna dolcissima, bella, intelligente, appassionata che egli stesso va creando. Soddisfazione che giunge al culmine quando egli finalmente distrugge la sua splendida creatura – offrendola in sacrificio, sulle rotaie, alla furia divina. «Avrebbe voluto sollevarsi, gettarsi da un lato; ma qualcosa di enorme, d’inesorabile, la urtò alla testa e la trascinò per la schiena. “Signore, perdonami tutto!” proferì, sentendo che era impossibile lottare» (Parte settima, capitolo 31), mentre sopra di lei e sopra il ferro del treno balena l’immagine spettrale del vecchio mužìk barbuto, che batte sul ferro borbottando non si sa cosa, e che Anna ha già più volte sognato. Rabbrividisci, e pensi che non è giusto; o meglio: che è giusto d’una giustizia inammissibile, inumana ed «enorme», «inesorabile» come quel qualcosa. E anche questo fa parte del gioco: anche il raccapriccio dinanzi alla «vendetta divina» officiata da Tolstòj è pieno di quell’intima, segreta, insinuante soddisfazione. Una ragione della quale risiede nel diritto – di cui ogni lettore si sente automaticamente investito, dinanzi a tanta crudeltà – di insorgere contro l’autore e la sua epigrafe: di prendere le parti di Anna contro quel Dio feroce, e di difendere la colpa di lei, contro la Legge di Lui. «A me la vendetta...»: ma quale vendetta, per cosa? Anna, in fondo, non ha fatto altro che amare, apertamente e con coraggio; e ben più di lei meriterebbe semmai «vendetta» quell’ambiente bigotto, ipocrita e vizioso a cui lei si è ribellata e che le ha voltato le spalle (incapace di perdonarle non tanto l’adulterio, quanto piuttosto il suo coraggio, la sua sincerità, la forza della sua passione) – e innanzi a tutti il marito, lo spregevole Karénin che ricatta la povera Anna facendo leva sul figlio. Perché Tolstòj non massacrò anche Karénin? o Stepàn Arkàd’evic, e Betsy Tverskàja (entrambi colpevoli della stessa colpa di Anna, ma premuratisi sempre di evitare scandali)? Evidentemente (è una delle prime, e delle più frequenti obiezioni mosse dalla critica ad Anna Karénina) il Tolstòj moralista non convinceva pienamente nemmeno il Tolstòj artista, e Anna Karénina è un conflitto tra il primo e il secondo, in cui è il primo ad avere in realtà la peggio e a risultare inattendibile. E in materia di morale, non vi è nulla che dia più soddisfazione del convincersi dell’inattendibilità di un principio o comandamento in cui qualcun altro mostra di credere.
Un’altra ragione di quella soddisfazione particolarissima è che, sotto sotto, la fine di Anna ingenera un ineffabile sollievo. Nessuno sarebbe disposto a controfirmare quelli che sembrano essere i motivi della sua condanna a morte, e tuttavia Anna è palesemente una donna condannata: è un personaggio tragico, votato alla tragedia, malato d’angoscia, incline alle ossessioni, ed è talmente ingombrante! Ingombrante come può esserlo soltanto un ribelle, un individuo cioè che non trova pace nel mondo consueto, e che di nessuno può essere compagno (persino Vrónskij a un certo punto ne è annoiato fino alla disperazione). La sua morte salva, rende tormentosamente bello tutto ciò che in lei sarebbe divenuto insopportabile se fosse vissuta più a lungo: il suo egoismo, il suo orgoglio, la sua malinconia, i suoi incubi, la pena che suscita la sua situazione. Sicché la «vendetta divina» finisce per apparire al lettore in un certo qual modo come provvidenziale e pacificante. E senza che ciò contrasti con la sua «enormità» morale, anzi: vi è in Anna, nella sua ribellione, qualcosa d’immediatamente affine allo spirito di quell’epigrafe e al peculiare carattere del moralismo tolstoiano, così come vi è in lei qualcosa che la affratella a Lévin, a quell’«egoista fino al midollo» (come lo definì Turgenev), che proprio come Anna non può in alcun modo trovar posto nel mondo di tutti, tra la gente perbene. In tutti e tre, in Anna, in quel moralismo e in Lévin, vi è la medesima, ingombrante ribellione, che nel romanzo non trova, in realtà, pacificazione alcuna, e della quale Anna è soltanto l’anello più fragile. Se si guarda al romanzo nella prospettiva di questa ribellione e affinità, non trovano più fondamento né l’interpretazione consueta dell’epigrafe e della condanna tolstoiana della colpa di Anna, né tantomeno quella duplice soddisfazione – la quale viene a trovarsi bensì tutta quanta dalla parte di quel mondo contro cui la ribellione muove.
Anna soccombe sotto una forza a cui lei stessa aveva scelto di obbedire, e che si è rivelata poi troppo più grande di lei. In una delle celeberrime immagini allegoriche che costellano il romanzo, questa forza è raffigurata nella tempesta di neve abbattutasi sul treno in cui Anna si ritrova dinanzi Vrónskij, che le si dichiara. «“Come mai sono in viaggio?” ripeté lui, fissandola dritto negli occhi. “Lo sapete che viaggio per essere lì dove siete voi”, disse lui, “non posso fare altrimenti.” E in quel preciso istante, come se avesse superato un ostacolo, il vento buttò la neve giù dai tetti dei vagoni, fece vibrare una lastra di ferro divelta, e in testa al treno sibilò gravemente il fischio lugubre e lamentoso della locomotiva. Tutto l’orrore della tempesta adesso le parve ancora più magnifico. Lui aveva detto proprio quello che lei in cuor suo desiderava, ma che col ragionamento temeva.»[...]

PRIMA | HOME PAGE | DOPO